Un pensiero sulle parole della poesia…

Un pensiero sulle parole della poesia, a partire dal libro Respiro, di Antonio Ferrara

Vicina al capolinea della vita
son qui a riscriver nella rete…oscura

Non è un caso che questo articolo inizi con un paio di endecasillabi, riecheggianti (mi si perdoni!) i versi danteschi.  Nel libro citato, che propongo in uno dei miei percorsi di lettura a scuola, il giovane protagonista, Tullio, esprime infatti un pensiero suggestivo:

«Dicono che le poesie si fanno come i respiri, che l’endecasillabo, il verso fatto di undici sillabe, sia lungo quanto un respiro, e che per questo sia il verso più bello». (pag. 5)

Fatto sta che, scritta in endecasillabi o meno, la poesia è capace di spremere il succo genuino di ogni parola. Cosicché, se ne assaggiamo il succo, fosse solo con la punta della lingua, quella parola la si conosce in un modo che scopriamo essere nuovo. Se ne gusta il senso – o uno dei sensi – in modo più penetrante e profondo, meno mediato dal comune parlare.

La parola poetica svela di conseguenza i significati inusuali, e non per questo meno autentici (anzi!)  delle cose che racconta. Non è mai una parola “neutra”, ma è una parola che semmai rende importanti anche le cose più scontate e più banali.

Anche a Tullio sarebbe piaciuto vedere la poesia dappertutto, nelle cose piccole a cui nessuno prestava mai attenzione. Ci si voleva allenare, voleva imparare. Se le raccontavi bene, le cose piccole potevano diventare grandi. In fondo anche lui era una cosa piccola che nessuno aveva la pazienza di notare. (pag. 46)

Per rimanere in tema di metafore legate al “senso del gusto”, concludo con un invito: i significati sottesi a parole e cose, nella poesia, sono da assaporare fino in fondo. Da digerire, oserei dire. Così non si rischia di perdere – o magari la si ritrova, nel caso sia già perduta – quell’abitudine sana di non fermarsi alla superficie, alle apparenze della vita.

Ai ragazzi lo spiego con la poesia di un grande maestro:

I bravi signori (Gianni Rodari)

Un signore di Scandicci
buttava le castagne
e mangiava i ricci.

Un suo amico di Lastra a Signa
buttava i pinoli
e mangiava la pigna.

Un suo cugino di Prato
mangiava la carta stagnola
e buttava il cioccolato.

Tanta gente non lo sa
e dunque non se ne cruccia:
la vita la butta via
e mangia soltanto la buccia.

N.B. Il primo endecasillabo è un chiaro riferimento alla mia età anagrafica. Riguardo all’oscurità della rete… parliamone!

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